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Date(s) - 08/09/2020
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Museo del Risorgimento e della Divisione Garibaldi
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OTTO SETTEMBRE
Vogliamo ricordare la storica data dell’8 settembre 1943 nella ricorrenza dell’anniversario non tanto come “morte della Patria” bensì come avvio della costruzione della nuova patria italiana ed europea, libera dall’oppressione del nazifascismo. Lo facciamo “dalla nostra parte”, quella di soci dell’ANVRG che si richiamano alla vicenda della Divisione italiana partigiana Garibaldi in Montenegro, riproducendo un bellissimo articolo del compianto presidente Lando Mannucci, 15 anni dopo la sua scomparsa.
Si intitolava
SE QUESTA NON E’ RESISTENZA …
Quando nella serata dell’8 settembre 1943 il Gen. Badoglio, capo del governo italiano, annunziò via radio agli italiani che le Forze Alleate avevano concesso l’armistizio all’Italia, il primo magari fugace pensiero che invase prepotentemente l’animo dei militari italiani, fu: la guerra è finita, si torna a casa. Il secondo pensiero, un po’ più realistico: – E ora che succede? Che si fa? Ordini precisi sul da farsi o non ve n’erano o furono ignoti ai più. Qui bisogna intanto fare una distinzione fra Comandi e Reparti metropolitani, cioè di stanza nel territorio nazionale, e quelli all’estero. Casa reale e Comando supremo pensarono bene di involarsi al Sud nel territorio cosiddetto liberato. Evidentemente si fidarono più degli invasori angloamericani (e resto del mondo) che dell’alleato tedesco che, infatti, senza tanti complimenti invase, per conto suo, la parte non ancora, si fa per dire, liberata. Del resto l’armistizio era stato chiesto agli alleati.
Il 25 luglio 1943 è un’altra data da ricordare e considerare attentamente anche per i suoi riflessi sulla situazione caotica creatasi all’annunzio dell’armistizio. La dittatura fascista era ingloriosamente caduta e il suo creatore e duce arrestato. La gioia fu grande ma il nuovo governo annunziò, inaspettatamente: “la guerra continua”. Nell’animo della gente e dei soldati si ritenne conseguente l’idea che cadendo il fascismo e il suo capo sarebbe dovuto cadere anche la guerra. La cosa non era così semplice come dirla. Come liberarsi dall’alleato tedesco che riteneva fanaticamente ancora certa la vittoria? Dopo quasi tre anni di guerra, di distruzioni e di gravi rinunzie, gli italiani, forse per primi i militari, erano già convinti essere inutile continuare a combattere, anzi delittuoso. Coloro che, adulti, vissero quei giorni, possono formulare l’opinione che paradossalmente si desiderasse di più la fine della guerra che la caduta del fascismo, anche se l’una era legata indissolubilmente all’altra. La storia è la storia.
La caduta del fascismo pose al Governo alcuni gravi ed importanti problemi da risolvere con ogni premura: conservare l’ordine pubblico; chiedere l’armistizio alle Forze alleate cercando di ottenere le meno sfavorevoli condizioni; chiedere di concertare con loro uno sbarco di forti proporzioni a Formia o Civitavecchia; l’apertura di un secondo fronte in Jugoslavia o a Salonicco; convincere i tedeschi che la guerra continua era davvero una precisa volontà del Governo italiano e non un artifizio ingannevole.
Sta di fatto che le richieste rimasero tali per molti motivi, sia politici sia strategici. In pratica all’annunzio dell’armistizio mancò un piano, o comunque non fu attuato, mancarono ordini, si allentò la disciplina, mancarono esempi validi e si ebbe il fenomeno dello sbandamento. La controprova fu qualche esempio luminoso come a Porta San Paolo e altrove. Dove i comandanti seppero essere comandanti dando esempio di fermezza e di coraggio, i subalterni furono con loro, con pari orgoglio e dignità. Questo esempio non lo dettero le più alte Autorità dello stato.
Nello sfacelo generale vinse la voglia di tornare a casa, per rivedere la famiglia e proteggerla e magari trovarvi rifugio in un momento così caotico. Ritrovare un punto di riferimento morale concreto dal quale ripartire; lo si capirà poco dopo al momento delle scelte. Ma intanto me ne torno a casa, mimetizzato da panni borghesi, magari nottetempo, con l’aiuto della gente che comprendeva, eccome se comprendeva. La strada è libera, i miei superiori l’hanno già fatto, la lontananza da casa può essere corta o lunga, non importa. Moltissimi militari, d’ogni grado, la pensarono e fecero così.
Per quelli che all’annunzio dell’armistizio si trovarono all’estero il discorso fu diverso perché diversa la realtà di fatto. Nei Balcani, una trentina di Divisioni si trovarono di punto in bianco senza ordini o direttive e sappiamo il perché. Di primissimo istinto: – la guerra è finita! Berretti in aria… si torna a casa. Ma la strada non è libera: mille insidie la chiudono, la vietano. Come ti muovi, qualcuno te lo impedisce, a cominciare dai tedeschi, a finire alla Bande armate di varia ispirazione e nazionalità. Tutti ambiscono le tue armi, le tue riserve d’ogni tipo, la tua persona stessa come forza lavoro. La guerra distrugge e se vuole continuare a distruggere deve anche provvedere a riparare strade, porti, ferrovie e per questo diventano utili anche i prigionieri, i catturati. Non c’è una via facile di salvezza. Tutti vorrebbero ritornare a casa, o almeno tornare in Italia, via mare o via come ti pare, poi si vedrà. Dove mancarono esempi validi e dove la situazione particolare politico-militare obiettivamente non li permise o li rese inefficaci, la soluzione più facile risultò alzare le mani e darsi prigionieri, poi si vedrà. La contropartita sarebbe stata comunque il gravissimo rischio della vita. E’ cosa comprensibile e certa sotto ogni aspetto che la situazione da affrontare non fosse facile, che risultasse decisamente incerta per chiunque e specialmente per ogni Comando o Comandante che in quella anomala situazione si sentì improvvisamente solo e responsabile dell’onore militare della propria Unità o Reparto e della vita stessa dei dipendenti. Eviterei quindi i giudizi generalizzati e definitivi.
Mario Pirani in un lucido articolo su La Repubblica del 23 maggio, intitolato: Cefalonia: Resistenza o Soviet militare? ha preso posizione in una disputa che si va facendo su l’apporto bellico dei militari alla Resistenza ed alla guerra di liberazione dal nazifascismo, mettendo in dubbio che le loro vicende belliche contro i tedeschi del dopo 8 settembre, a cominciare dalla Divisione Acqui a Cefalonia, siano da considerarsi Resistenza.
Riferendosi al resoconto stenografico di una trasmissione della Radio ufficiale della Germania federale è stato detto fra l’altro che «E’ stato soprattutto il Presidente Ciampi a raccogliere l’impulso a porre il grande gesto patriottico della Divisione Acqui al vertice della Resistenza italiana. Gian Enrico Rusconi non è d’accordo …» Intervento di Rusconi: «Effettivamente si sta ricostruendo una immagine d’insieme della Resistenza in cui c’è posto per i militari, ma questi non hanno nulla a che vedere con la Resistenza dei partigiani. Perché la Div. Acqui voleva tornare a casa con le armi, punto … Se Resistenza significa lottare contro i tedeschi allora quella era Resistenza, ma avrebbero combattuto contro chiunque, anche contro i russi, se questi li avessero voluti disarmare» Per Sergio Romano «l’unico desiderio di quei soldati era di tornare a casa. Per loro la guerra era finita. Avevano paura di essere catturati dai tedeschi. Non hanno combattuto per altre ragioni.»
Per mia personale esperienza e per quello che ho detto prima, non posso che approvare la posizione di Mario Pirani, il quale nel suo articolo cita molto appropriatamente la Divisione italiana partigiana “Garibaldi” – costituita dai militari delle Div. Venezia e Taurinense in Montenegro – che «combatté in Jugoslavia a fianco dei partigiani di Tito» e con simboli, aggiungo io, e gradi dell’E.I., per liberare l’Europa dal nazifascismo, approvante il Comando Supremo italiano. Lo stimolo morale fu: l’amor di patria e l’orgoglio di soldati. Ma non mancò anche il rifiuto del fascismo con la sua rovinosa politica conclusa con la sconfitta dell’Italia.
Per quanto riguarda la Div. Acqui non intendo approfondire l’esame sul comportamento del Comando divisione riguardo alle incertezze dei primissimi giorni. Sta di fatto che di fronte alla ripetuta ed inflessibile richiesta dei tedeschi della resa degli uomini e della cessione delle armi, e di fronte al rifiuto dichiarato anche formalmente da ufficiali e soldati, tutto il presidio di Cefalonia, Marina compresa, accettò il combattimento, resistette fin quanto poté lasciando sul terreno molti morti e feriti. Arresisi, per impossibilità di continuare il combattimento, si aspettarono comportamento leale dei vincitori tedeschi, che non ci fu, a loro disonore. Anche il presidio di Corfù (sempre della Acqui) si comportò coraggiosamente e lealmente. Di fronte a tutti quei morti non si può concludere con superficialità che i soldati italiani avevano solo voglia di tornare a casa. E’ deludente. Nel concetto di “tornare a casa” è compresa ovviamente l’idea di tornarci vivi; per questo era più semplice e più facile darsi prigionieri e come tali tornare, alla fine, a casa vivi, piuttosto che “tornare in guerra” nella r.s.i. al servizio dei tedeschi.
La speciosa domanda, assai sottile, se i militari che all’estero combatterono, dopo l’armistizio, contro i tedeschi e loro alleati, cioè contro il nazifascismo, abbiano fatto Resistenza o no, ha tutta l’aria di volere sminuire il valore di questi prodi italiani, solo perché militari e non indottrinati ideologicamente. Questo è scorretto. Intanto si dovrebbe ricordare che fra i militari dislocati in territorio italiano, un certo numero scelse di salire in montagna con i partigiani. Furono quindi Partigiani e Resistenti. Perché non potevano esserlo allo stesso titolo quelli che si trovarono invece all’estero?
In genere non si sa, o si è dimenticato, o si ignora anche volutamente, che della trentina di divisioni, più Alti Comandi, Servizi ecc., dislocati all’8.9.43 nei Balcani, almeno 13 – La Perugia, la Firenze, la Parma, la Bergamo, la Puglie, l’Arezzo, la Messina, la Marche, la Venezia, l’Emilia, la Taurinense, la Pinerolo, l’Acqui – con maggiore o minore fortuna, più o meno a lungo, rivolsero le armi contro i tedeschi. E bisognerebbe anche ricordare i piccoli gruppi e singoli militari, che si aggregarono ai partigiani locali, quasi unico modo di sopravvivere dignitosamente dando una mano alla lotta di Resistenza e indirettamente alla liberazione dell’Italia.
Mario Pirani ha voluto citare la ‘Div.italiana partigiana Garibaldi’ e lo ringraziamo di cuore, perché è sicuramente l’esempio più calzante di sicura partecipazione dei militari italiani alla Resistenza all’estero, quale formazione più forte, che abbia durato più a lungo e sia rimpatriata, armata ed efficiente, a Montenegro liberato, dopo ben 18 mesi di vita durissima per tantissimi motivi, che per brevità non sto qui ad enumerare. Erano militari delle Div. Venezia e Taurinense che avevano rifiutato la resa, ed alleatisi con l’Esercito Popolare Liberatore Jugoslavo, seppero adeguare i propri organici alla guerriglia, affrontando l’ignoto con dignità e coraggio. Anche nella “Venezia”, udite udite, fu effettuato una specie di referendum fra i soldati di ogni grado che ebbe risultato pressoché all’unanimità contro i tedeschi. Ho ancora negli orecchi e nella memoria visiva il grido unanime e forte di approvazione dei militari dell’83° fanteria alla richiesta del loro Colonnello: «Non consegnarsi e affrontare i tedeschi». In una situazione così straordinaria i Comandanti della Venezia e della Taurinense sentirono la necessità morale, prima che formale, di conoscere l’opinione e la volontà dei propri dipendenti. Sarà stato “insolito” per un reparto combattente, ma fu efficace, e vivaddio, democratico: un segno di speranza verso la democrazia, uscendo da una ventennale dittatura che ci aveva portato al disastro. Ma anche un’esplosione di patriottismo autentico, di gente semplice in grandissima parte di origine contadina, toccata nell’intimo dei propri sentimenti di italianità, venuti alla luce proprio in quel momento topico nel quale per un soprassalto di dignità di uomo, di cittadino e di soldato, scopre di amare come mai prima la patria, riconosciuta, in un èmpito di commozione, nel ricordo di volti familiari, di focolari domestici, del campanile, di consuetudini amichevoli, di tradizioni, di ricordi, anche vaghi, delle storie risorgimentali e delle trincee della guerra 15-18: la patria autentica riconosciuta non tanto dai simboli, quanto nella propria gente amata e solidale per la quale valeva combattere e rischiare. Fu un ulteriore giuramento spontaneo, non prestampato; squillante come le note di Fratelli d’Italia!
Fu anche un dissociarsi dalle colpe del fascismo di fronte ai popoli che ci avevano visti occupatori, sicuramente non graditi; fu partecipazione volontaria, difficile, molto sofferta, alla Resistenza europea al nazifascismo, con tanti morti, tanti malati, tanti dispersi.
Non andiamo qui alla ricerca di chi porre «al vertice della Resistenza italiana», ma non mi sembra né giusto né corretto porvi la Div. Acqui. Non fu la prima né l’unica.. Tutte le Unità e Reparti udirono il messaggio radio di Badoglio lo stesso giorno: 8 settembre pomeriggio. Una gran parte delle Divisioni di stanza all’estero, mi riferisco in particolare ai Balcani, si arresero quasi subito e si lasciarono catturare. Una parte no. Non accettarono la resa e combatterono. Anche fra queste qualche differenza potrebbe essere riconosciuta nel senso che alcune – la maggior parte delle 13 sopra elencare – durarono un mese o poco più perché sopraffatte dai tedeschi o dalle avversità di vario genere. La Div. Firenze, ovvero “Truppe alla montagna”, dell’eroico Gen. Arnaldo Azzi, forza iniziale di circa 20.000 uomini, concluse come tale a fine maggio 1944. Questa annotazione non diminuisce di un ette il loro valore ed il loro sacrificio L’unica fu la Div. Garibaldi (ex Venezia e Taurinense) che non volle arrendersi mai nonostante tutti i disagi, le difficoltà, le perdite dolorose in combattimento e per malattie, compreso un’epidemia di tifo esantematico e rimpatriò armata ed efficiente a marzo 1945, quando le truppe tedesche erano in affannosa ritirata ben oltre ormai il Montenegro. Era stata un blocco di volontà nel quale comandanti e gregari si sentirono uniti e solidali, quindi oltre che eroici, anche combattenti capaci. Rimase una Grande Unità dell’Esercito italiano, con un fazzoletto rosso intorno al collo come simbolo garibaldino, al posto della camicia rossa. Fu adottato il motto che era già dell’Esercito popolare di Tito: «Morte al fascismo, Libertà al popolo» sicuramente in armonia con la Resistenza in Italia e con la speranza condivisa dei militari italiani, abbandonati senza ordini né direttive all’estero. Sarà bene precisare che la “Divisione italiana partigiana Garibaldi” non fu comunistizzata, anche se qualcuno ci provò. Direi che fu tutto meno che comunista. E non mancò, ove fu possibile, la commemorazione della data del 25 aprile1943. L’altra divisione sorella della “Garibaldi” fu la Divisione italiana partigiana “Italia” che non nacque da una divisione dell’E.I., ma spontaneamente da piccoli gruppi ed isolati di militari italiani decisi a non subire l’onta della resa ai tedeschi e rimpatriò piena di riconoscimenti, dopo la fine della guerra, avendo partecipato alla liberazione di Belgrado. Vorrei anche ricordare ai giornalisti, agli studiosi della materia che anche i militari di carriera o no, in qualsiasi posizione giuridica, fanno parte del popolo sottoposti pro tempore a particolare disciplina, ma restano cittadini; riflettono in qualche modo, i problemi, le esigenze, le speranze della nazione, specialmente nei momenti cruciali, come furono appunto il 25 luglio e l’8 settembre 1943.
Un pensiero di riconoscenza va speso, con orgoglio di italiani e di soldati italiani, per coloro che isolatamente o piccoli gruppi, mentre il proprio reparto si estingueva, dettero prova di grande patriottismo in un ora buia della Patria e sacrificarono anche la vita. Ricordiamo solo qualcuno per tutti. Il Gen. Amico, comandante della Div. Marche, che catturato dai tedeschi e trasportato in una caserma perché convincesse i militari ad arrendersi, ebbe il fegato di chiedere loro se volevano arrendersi o combattere, Risposero combattere, cosa che fecero, ma con poca fortuna. Amico fu fucilato. E che dire dei Gen. Cigala Fulgosi, Pelligra e Policardi fucilati a Sinj e i 46 ufficiali trucidati a Trily nella zona di Spalato il 1° ottobre 1943! Ve ne sono tanti altri e forse l’Ufficio storico dello S.M.E. conosce le loro eroiche fini.
A colui che ha chiesto, come si evince dall’articolo citato di Pirani, se i militari dell’Acqui «avrebbero combattuto contro i russi se questi li avessero voluti disarmare» suggerisco di rileggere il comunicato Badoglio dell’8.9.43 che concludeva: «Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.»
Ed ora non ditemi che quella non fu Resistenza. La Resistenza al fascismo era stata cominciata in altri tempi da cittadini come Matteotti, i Fratelli Rosselli, Pertini, Pacciardi, Sante Garibaldi e dai tanti che avevano dovuto rifugiarsi all’estero e non sempre bastò. Ripresero quel filo rosso i partigiani e quei militari che ebbero fede e speranza nella patria. Fu Pertini presidente che inaugurò in Montenegro un monumento alla “Garibaldi” (nella foto ndr). Un Testimone credibile e degno. Sapeva bene Egli quanto si ama la Patria quando si è lontani: assomiglia alla Libertà che si ama e si rimpiange quando manca.
Lando Mannucci
Monumento ai garibaldini a Pljevlja.
Ad Asti è visitabile Il Museo della Divisione “Garibaldi”