A 160 anni dai fatti di Aspromonte

1862 ANNO DELLA BATTAGLIA DI SANTA EUFEMIA D’ASPROMONTE

Dopo il trattato di Villafranca del 1859, il primo vero tentativo di liberare i territori delle Venezie dalla tirannia asburgica fu quello messo in atto da Garibaldi il 19 maggio 1862, con il tacito consenso del re e, in parte, anche di Mazzini.  Tale progetto insurrezionale aveva già una dimensione “europea”, poiché doveva propagarsi dal Trentino fino ai Balcani, mediante il sostegno della Grecia.  A tal fine furono presi contatti con il governo greco e Vittorio Emanuele II, per qualche tempo, pensò anche di dare la corona di Grecia al suo secondogenito, Amedeo.

Tale progetto, però, non era conosciuto ufficialmente dal governo, allora presieduto da Urbano Rattazzi (gli stretti legami tra il capo del governo ed il monarca non possono essere ignorati, tanto che circolavano voci negative sul conto del capo del governo) ma la presenza di numerosi volontari armati al confine con l’Austria non fu ignorata dalle potenze europee, soprattutto dall’Austria e dal governo francese.      

Rattazzi, su pressioni del ministero degli Esteri, fece occupare militarmente i valichi di confine con l’Austria, fece arrestare 123 volontari,  comandati da Nullo, che erano dislocati tra Sarnico, Trescore e Palazzolo, e dispose anche il sequestro di tutte le armi e le munizioni depositate nelle predette località.

I volontari arrestati furono inviati nelle carceri di Milano, Alessandria e Brescia.

Il 16 maggio però a Brescia vi fu una imponente dimostrazione popolare di protesta, tanto che la folla circondò le carceri per liberare gli arrestati, ma l’esercito (mal comandato) che intervenne, non riuscendo a disperdere i dimostranti, fece fuoco ed uccise quattro cittadini ferendone altri sei.

La notizia di tale evento provocò dimostrazioni di protesta su tutto il territorio nazionale, in particolare a Milano, Genova, Napoli e Palermo.

La stampa moderata cercò di addossare la colpa a Garibaldi ma questi rese pubblica una sua lettera con cui si assumeva ogni responsabilità dicendo: “gli sgherri erano mascherati da soldati… i soldati italiani devono combattere i nemici della patria e del re, non uccidere e ferire i cittadini inermi. Le milizie devono essere sulla frontiera e sui campi di battaglia, là e non altrove è il loro posto”.            

Inoltre, Garibaldi, in una lettera diretta al capo del governo scriveva che “l’aveva fatto con il consenso, anzi dietro incitamento del Governo, ma che non era vero che i volontari volessero fare un’incursione nel Trentino, e accusava il governo di malafede e di tiepidezza verso la causa dell’unita nazionale, incitando la Camera a non sostenere con i suoi voti il ministero in carica”. 

La Camera, dopo quattro giorni di discussione, in cui si distinsero per il loro impegno a favore dei volontari Bertani e Crispi, approvò il comportamento del governo. Conseguenza di tali avvenimenti fu che il re non volle ricevere il Generale, che il 20 giugno con alcuni garibaldini si imbarcò per Caprera.

 Tuttavia, il 3 marzo 1862 Urbano Rattazzi succedette al Ricasoli nella presidenza dei ministri, tenendo per sé i portafogli degli Esteri e dell’Interno. Come dopo Villafranca, così ora egli riassumeva il potere in difficili condizioni. Nel suo discorso del 7 marzo, il R. aveva dichiarato che in Roma si doveva andare col consenso della Francia, che il voto degl’Italiani si doveva sciogliere con mezzi morali e diplomatici.  Il fatto di Sarnico, e svelò al governo il vero fine per cui il generale prolungava il suo soggiorno nell’alta Italia, e il triste episodio di Brescia valsero a raffreddare alquanto la cordiale intesa col Rattazzi, col quale, andato a Torino per tornare alla sua Caprera, Garibaldi aveva avuto quasi un alterco.     

L’11 marzo 1862 il Supremo Consiglio del Rito Scozzese sedente in Palermo conferì a Giuseppe Garibaldi tutti i gradì scozzesi, dal 4° al 33° e lo nominò Presidente del Supremo Consiglio con il titolo di Potentissimo Sovrano Gran Commendatore e Gran Maestro. Incarico che accettò il giorno 20 dello stesso mese. Il 3 luglio successivo, Garibaldi fece iniziare in Massoneria il figlio Menotti e l’intero stato maggiore, presumibilmente nella Loggia palermitana “I Rigeneratori del 12 Gennaio 1848 al 1860 Garibaldini”. Condusse la cerimonia il Maestro Venerabile Emanuele Sartorio.                                                                                                                                                                   Ma intanto il partito d’azione e i Comitati di provvedimento per Roma e Venezia si erano raccolti in Genova come a parlamento, e Garibaldi vi era stato acclamato. Col duce dei Mille il Rattazzi, fin dall’inizio del suo ministero, era entrato in cordiali relazioni, commettendogli la direzione dei tiri a segno nazionali e financo prospettandogli l’offerta d’un milione per provvedere all’armamento d’una spedizione in Grecia, che Garibaldi aveva promesso di soccorrere. Alla fine di giugno, Garibaldi, all’insaputa del governo, comparve in Sicilia scatenando l’entusiasmo della popolazione. Sembrava di essere ritornati ai tempi della Spedizione del 1860. Ancora una volta egli partiva dalla Sicilia per un’azione di forza per liberare Roma. Dopo Palermo Garibaldi iniziò il suo viaggio attraversando i luoghi della sua gloria. In particolare, a Marsala invitò i cittadini a seguirlo fino a Roma e tutti ripeterono il grido “Roma o morte”. Allora moltissimi volontari affluirono a Palermo da tutte le parti, sfilando davanti all’esercito regolare salutandoli cameratescamente. A Palermo quasi tutti gli ufficiali componenti dello Stato Maggiore di Garibaldi che erano Massoni furono insigniti dei gradi del R.S.A.A.                                                                                      E’ bene ricordare che allora il G.M del GOI era Filippo Cordova, eminente figura del liberalismo siciliano che godeva della stima di tutta la dirigenza massonica moderata: sotto la sua Gran Maestranza la giovane istituzione liberomuratoria italiana pose le basi per il proprio riconoscimento internazionale e diede vita a una rivista (la prima pubblicazione massonica della penisola) che, pur cambiando diverse volte il nome, avrebbe continuato a essere pubblicata fino ai giorni nostri, vantando perciò più di 140 anni di anzianità (tenendo ovviamente conto della forzata pausa imposta dal fascismo e di un breve periodo nel secondo dopoguerra durante il quale la rivista non uscì).

ll 2 agosto Garibaldi ripartì in tre colonne i 3.000 volontari giunti alla Ficuzza e li incaricò di raccogliere nuove adesioni nel resto dell’Isola: i tre gruppi seguirono itinerari diversi, e in poco tempo avvennero i primi scontri con l’esercito. La colonna garibaldina che percorse il tratto più meridionale della Sicilia, comandata dal colonnello Giuseppe Bentivegna e costituita da circa 1.000 uomini, partì da Corleone il 3 agosto e tre giorni dopo raggiunse Santo Stefano di Bivona (l’attuale Santo Stefano Quisquina, a qualche chilometro da Bivona). La colonna fece sosta in paese, ma ciò le fu fatale: infatti furono inviati dalla sottoprefettura di Bivona, tra soldati e carabinieri, più di sessanta uomini armati che provocarono un conflitto a fuoco con i garibaldini, costretti a desistere dal loro tentativo di arruolamento di nuovi volontari. Gli uomini di Garibaldi avevano riportato qualche morto e chiesero invano la restituzione dei fucili che vennero loro sequestrati; furono costretti ad andare via da Santo Stefano, e dopo essere passati da Casteltermini, abbandonarono il loro viaggio nella Sicilia meridionale e si incontrarono con Giuseppe Garibaldi a Santa Caterina Villarmosa. La prefettura di Girgenti giustificò l’accaduto, malvisto dalle autorità di Palermo, dicendo che Bivona non disponeva di nessun ufficio telegrafico e che, per tale motivo, non era a conoscenza delle disposizioni del Governo.

Le autorità locali non riuscivano a giudicare se tali volontari erano amici o nemici, ciò a causa del fatto che nel 1860 l’azione era appoggiata non ufficialmente dal re e fingendo di sconfessarla. Il 20 agosto Garibaldi giunse a Catania con la convinzione che il re fosse dalla sua parte. Ciò era dovuto al fatto che quando incontrava colonne dell’esercito regolare gli lasciavano il passo. Nella rada di Catania erano presenti due navi da guerra comandate dall’ammiraglio Albini. Questi interpretando a suo modo un ordine ricevuto da Torino, consentì a Garibaldi ed ai suoi uomini di andare all’arrembaggio di due piroscafi alla fonda, uno francese e l’altro italiano e di impadronirsene.  Alle quattro del mattino del 25 agosto i due piroscafi sbarcarono duemila volontari sulla costa calabra fra Melito e capo dell’Armi quasi il medesimo punto dello sbarco del 1860.  Garibaldi così scrisse nelle sue memorie: Infine dopo marce disastrose per sentieri impraticabili, all’alba del29 agosto i volontari giunsero sull’altipiano di Aspromonte, stanchi ed affamati. Alcune patate mal mature, furono il primo orgasmo della fame, furono mangiate arrostite. E qui devo far giustizia alle buone popolazioni montane di quella parte della Calabria. Esse non comparirono subito, per i disagiati sentieri, e le difficoltà di comunicazioni, ma nel pomeriggio comparvero cotesti generosi abitanti con abbondanti provviste di frutta pane ed altro. L’imminente catastrofe però ci diede poco tempo per profittare di tanta benevolenza.   

Il governo Italiano allora pressato dall’Imperatore Francese prese alcune decisioni e precisamente: il 15 agosto nominò Alfonso Lamarmora responsabile del mezzogiorno riservandosi il comando delle zone in cui si muoveva Garibaldi; il 21 agosto sostituì il generale Cugia con Cialdini nella direzione politica della Sicilia. Inoltre, tra la Calabria e la Basilicata erano stanziati numerosi reparti per la lotta al brigantaggio, fu facile formare una colonna di sette battaglioni agli ordini del colonnello Emilio Pallavicini di Priola ed inviarla in Aspromonte. Occorre anche ricordare che Garibaldi a causa del fuoco di una nave da guerra era stato costretto a non entrare a Reggio e dirigersi verso Aspromonte. Occorre anche ricordare che l’Esercito era molto più forte dei Garibaldini e anche meglio armato. Garibaldi la mattina del giorno 29 agosto avendo avvistati le truppe di Pallavicini, portò i volontari in una posizione più adatta alla difesa quasi al limite della foresta di pini che era in Aspromonte. Le truppe dell’Esercito erano circa di 3500 uomini, in testa avanzavano i bersaglieri, a passo di corsa, e facendo fuoco. Garibaldi, già prima aveva ordinato di non sparare, pur essendo in una posizione molto favorevole ed avrebbe potuto sbaragliare gli attaccanti, che non avevano preso alcuna precauzione sfruttando il terreno. Tuttavia, il silenzio dei Garibaldini fu rotto da poche fucilate che non seppero dominare la tensione. Garibaldi, in piedi ed allo scoperto, mentre si affrettava a ordinare di non sparare fu colpito da due pallottole, una alla coscia sinistra, che fece poco danno, ed una che penetrò nel collo del piede destro, rimanendo nell’articolazione per cui non poté reggersi in piedi. Gli ufficiali vicini accorsi, lo portarono sotto gli alberi al limite del bosco. Allora gli furono tolti lo stivaletto e la calza, e gli fu portato anche Menotti ferito al polpaccio sinistro ed impossibilitato a reggersi. Al grido Garibaldi è ferito tutte le armi cessarono, il combattimento era finito dopo solo quindici minuti circa ed il risultato dello scontro fu il seguente: per l’Esercito regio 7 morti e 14 feriti; per i Garibaldini 5 morti e 20 feriti.                                   Garibaldi, seduto a terra si accese un sigaro assistito da tre ufficiali medici Ripari, Basile, e Albanese verso cui fu sempre riconoscente. Garibaldi soffriva molto ma era sereno e più volte chiese se occorresse amputare l’arto perché essendo pronto a subirla. Dopo gli si presentò un ufficiale a cavallo, che con modi scortesi gli intimò la resa ma Garibaldi fo fece disarmare e richiese la presenza di Pallavicini. Questi venne con il cappello in mano e si inginocchiò presso di li e parlò con voce bassa e rispettosa rammaricandosi di quanto accaduto. Si ritenne necessario trasportarlo a Scilla per essere imbarcato. A tal fine fu formata una barella con rami d’albero e coperta da cappotti, così la sera del 29 agosto verso le sette alla luce di torce iniziò il cammino su sentieri disagevoli che provocavano al ferito spasimi forti. La barella era portata da otto ufficiali mentre un altro versava continuamente acqua fresca sul piede infiammato. A mezzanotte si fermarono nella capanna di un pastore e Garibaldi fu adagiato sulla paglia e bevve brodo di capra. All’alba del giorno dopo fu ripresa la marcia. Garibaldi aveva chiesto di lasciare la Calabria su una nave inglese, ma non gli fu concesso e non si volle anche ricoverare in un ospedale vicino. A Scilla fu portato da una lancia sulla pirofregata Duca di Genova accompagnato da Menotti e dai tre medici e da una decina di ufficiali. Cialdini dalla tolda della Stella d’Italia, assistette alle operazioni d’imbarco quasi soddisfatto per aver dato una lezione al ribelle. Garibaldi fu condotto nella fortezza di Varignano nel porto militare della Spezia il due settembre dopo aver attraversato quasi tutto il Tirreno. La fortezza di Varignano era un ex lazzaretto successivamente trasformato in penitenziario che allora ospitava circa 250 condannati ai lavori forzati. Allora Garibaldi fu alloggiato in una ala della palazzina del comandante e gli fu concessa una stanza per sé e per cinque familiari e visitatori. La ferita più grave era quella del piede destro. Infatti, la prima relazione medica riportava: La palla è penetrata a tre linee al di sopra e al davanti del malleolo interno: la ferita ha una figura triangolare a lembi lacerocontusi del diametro di mezzo pollice circa. Alla parte opposta, mezzo pollice circa al davanti del malleolo esterno, si avverte un gonfiore che sotto il tatto è resistente. Proprio il gonfiore dovuto prevalentemente all’artrite rendeva difficile verificare la posizione della pallottola. Inoltre, non si era sicuri della sua reale presenza. Essa fu accertata solo alla fine di ottobre alla Spezia e per l’estrazione Garibaldi fu condotto a Pisa ove provvide il professor Zanetti. Dei volontari garibaldini ne furono arrestati circa duemila e vennero rinchiusi nelle antiche fortezze sarde (Alessandria, Vinadio, Bard, Fenestrelle, Exilles, Genova.  Il 5 ottobre furono amnistiati tutti per il matrimonio della figlia di Vittorio Emanuele II Maria Pia di Savoia con il re del Portogallo. Dopo l’amnistia Garibaldi ritornò a Caprera. In Sicilia le autorità cercarono di farsi perdonare la tolleranza eccessiva verso i Garibaldini attuando una vera persecuzione che portò al massacro sette volontari a Fantina in provincia di Messina. Tuttavia, Rattazzi ed il re vennero accusati, il primo per aver trattenuto rapporti ambigui con Garibaldi ed il re che aveva una spiccata tendenza a condurre una politica personale spesso separata dal governo e non è da escludere che ambedue abbiano illuso Garibaldi per poi abbandonarlo. L’unica certezza è costituita dal fatto che nel marzo 1862 Garibaldi era a Torino ed aveva più volte incontrato il re e Rattazzi, inoltre permane il dubbio se Rattazzi abbia pensato di convincere Napoleone III a lasciargli prendere Roma per impedire ai radicali di conquistarla. Certamente il Rattazzi era responsabile di aver temporeggiato in una prima fase ciò causò le sue dimissioni nel novembre 1862.

Il ferimento di Garibaldi ebbe una grandissima risonanza: a Londra cica centomila cittadini si radunarono a Hyde Park per dimostrare la loro solidarietà. Lord Palmerston offrì un letto speciale per l’eroe. I mazziniani ritennero annullato l’accordo tacito fra i repubblicani e la monarchia, inoltre, il governo fu accusato di aver combattuto per il Papa e di aver tradito la rivoluzione italiana.  Dopo Aspromonte il legame di Garibaldi con la Massoneria ed i suoi valori divennero saldissimi fino alla sua morte. Fu, infatti, impegnato nelle file del movimento pacifista e nella battaglia, che vide ovunque i massoni in prima fila per promuovere la costituzione di organismi di arbitrato a livello internazionale che scongiurassero il ricorso alle guerre. Così come la Massoneria di quegli anni si prodigò per l’affermazione del suffragio universale, per l’emancipazione femminile, per la diffusione dell’istruzione obbligatoria, laica e gratuita e per diffondere in Italia l’idea della cremazione. 

 

CARLO PORCELLA    

 

 

BIBLIOGRAFIA

Giuseppe Garibaldi – Memorie – Edizione BUR – Milano 2002

Garibaldi – Alfonso Scirocco – Editore Laterza – Bari 2001   

L’eccidio di Fantina – Sellerio Editore – Palermo 1986

Testimonianze inedite su antiche cospirazioni e cospiratori – L’attività di Gusztav Frigyesy nei

 Principati 1863-1864 di Raluca Tomi – Istituto di Storia Nicolae Iorga – Bucarest

 Un Ungherese Garibaldino – in L’Artiglio – Lucca 26.6.1887

 Politica segreta italiana 1863-1870 di Diamilla Muller – Torino 1981  

 C.A. Rosetti  di Vasile Netea – Bucuresti 1970

 C.A. Rosetti, Mesianism si Donquijotism revolutionar  di Marin Bucur- Bucuresti 1970

 La Massoneria Italiana nel decennio postunitario . L. Frapolli  di Luigi Polo Friz –  Franco Angeli  1998